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Alessandro Benetton: “Fuori dalla Borsa per rinascere, le identità forti durano nel tempo”

L’intervista ad Alessandro Benetton: “Torniamo a essere un’impresa familiare, vogliamo sperimentare per innovare”

Alessandro Benetton è di un anno solo più grande dell’azienda fondata da suo padre e dai suoi zii. Sono cresciuti insieme, anche se per molto tempo non si sono frequentati, ma oggi l’ha presa per mano, come fanno i fratelli maggiori, per aiutarla a ritrovare la sua strada. Si è convinto che che la chiave sia tornare a mettere al centro un prodotto con un’identità forte, per restituire vivacità a un marchio che aveva fatto del colore la sua forza ma che negli ultimi anni è apparso sbiadito. Il suo ufficio è all’ultimo piano di Villa Minelli, un complesso del Cinquecento, dalle finestre si possono riconoscere i capannoni in fondo al giardino in cui si è fatta la storia del gruppo, dove si è costruito il successo dei golfini che hanno conquistato il mondo. Ora non ci sono più magazzini e tintorie, ma disegnatori e tecnici informatici, uffici commerciali, finanziari, pubblicitari e di strategie di comunicazione. “Se guardo là fuori il primo ricordo che ho è l’odore della lana e il magazziniere seduto all’ingresso; poi nella memoria ho mia madre che ci chiamava per andare a prendere papà all’aeroporto di Venezia, di ritorno da uno dei suoi lunghi viaggi; se poi penso al legame tra me e la Benetton ricordo quando ai tempi della prima media mi misero su un set fotografico per la pubblicità di 012: non avevo capito che sarei finito sui cartelloni ma fu un successo. Anni dopo mia madre mi disse che era stata contattata con insistenza perché mi volevano in uno spot per la pastasciutta.” Alessandro Benetton è un uomo di 48 anni, presidente dell’omonimo gruppo da poco più di un mese, molto determinato, con le idee chiare ma anche con una riservatezza timida che non immagineresti mai dalle foto. Niente cravatta, camicia sportiva e jeans, e parecchi braccialetti al polso sinistro. Prima di lasciarsi andare a ricordi personali fra lunghi silenzi, ma ad insistere si riesce anche a sbirciare un suo tema di quinta elementare che la madre gli ha mandato dopo averlo ritrovato in un cassetto di casa: “Voglio pensare che da grande – scriveva Alessandro Benetton nel 1975 – sarò cittadino dell’Europa unita, anche se non sarà tutte e rose e fiori ma anche spine…”
In tempi in cui le spine sono molte più dei fiori dell’azienda che guida è appena uscita dalla Borsa di Milano, è tornata ad essere un’impresa familiare e questa – come racconta nella sua prima intervista da presidente – non è una mossa di ripiego ma la base di una lunga e profonda strategia di rilancio, “capace di immaginare trasformazioni vere e di lungo periodo, senza l’ansia delle trimestrali”.

Per andare dove, con che missione?

“Dobbiamo ricostruire una Benetton in cui il marchio si identifica con il prodotto e non solo con una catena di negozi: dobbiamo riaffermare la centralità del prodotto di qualità perché ciò che ci distingue da molti concorrenti è che noi non siamo moda “usa e getta” e nemmeno una società di distribuzione”.

Come si vende oggi?

“Per colpire l’attenzione di un consumatore ci vuole un buon prodotto, ma deve essere identificabile, ben espresso e venduto nelle atmosfere che lo spiegano al meglio. Stiamo lavorando molto per aggiornare il sistema di vendita, che resta un nostro punto di forza, ma dobbiamo rimetterci dentro un’identità forte. Per questo è cominciato un profondo lavoro di rinnovamento dei negozi, che finora ha toccato un quarto dei 6500 punti vendita sparsi in 120 Paesi”. Per provare a immaginare i nuovi negozi e lo stile la Benetton ha riprodotto una serie di negozi tipo nello stabilimento di Castrette, dove un tempo si tingevano le lane e dove da un anno imperversa l’estro di You Nguyen, vietnamita di nascita francese e americano di adozione. You ha cambiato filosofia con cui si pensano i punti vendita Benetton nella convinzione che la cosa più importante non sia il numero dei negozi che hai ma il valore del prodotto che ci metti dentro e il modo in cui lo trasmetti. Accanto ai punti vendita Benetton, in questo laboratorio si sono inventati anche i negozi di multimarca Playlife (150 in Europa, ma quattro nuovissimi nel Nord Italia) con cui vogliono catturare il pubblico dei Millennials, i giovani ventenni ritenuti cruciali in ogni studio di consumi”.

Ma ha senso oggi tenere aperti così tanti negozi anche in provincia, quando invece la concorrenza punta su grandi negozi nelle capitali?

“Grazie a un lavoro durato decenni siamo nei punti cruciali e più belli delle grandi metropoli, ma penso che la nostra capacità di essere presenti anche in città secondaria sia un nostro punto di forza, perché è vero che il mondo è globale e dominato da macro tendenze ma è anche vero che sino le chimiche locali e l’importanza di conoscere la propria clientela”.

Chi è il cliente tipo?

“Tra i bambini siamo leader mondiale, ma il riferimento resta sempre la donna tra i trenta e cinquant’anni che ha figli e compra per lei e per loro, a cui cerchiamo di offrire un prodotto fatto bene, che regge al tempo e che se lo hai dimenticato per due anni nell’armadio poi non ti devi vergognare di metterlo”.

Alessandro Benetton, il suo marchio costa più dei vostri attuali concorrenti, le grandi catene straniere?

“Usiamo materie prime di qualità superiore, che reggono al tempo, non concepiamo un prodotto che costa così poco che dopo tre volte che lo lavi lo butti. Non abbiamo mai usato tessuti sintetici e abbiamo dovuto sopportare rincari astronomici delle materie prime. Le cose buone hanno un valore, non dobbiamo dimenticarlo, un jeans non può costare 9 euro e 99: o è uno specchio per le allodole o un grande punto interrogativo”.

Il vostro primo negozio all’estero fu Parigi nel 1969, poi New York nell’80 e due anni dopo a Tokyo. Oggi il mondo è cambiato profondamente, dove aprirebbe il primo negozio?

“Ancora a Parigi, perché quello resta simbolicamente il cuore della moda europea, e gli Stati Uniti ma ora insieme alla Cina”.

Eppure in America vendete una frazione di quello che riuscita a fare in Europa (l’ottanta per cento del prodotto), ha ancora senso puntare sull’altra sponda dell’Atlantico?

“Negli Stati Uniti abbiamo scelto di fare due passi indietro per farne uno in avanti, abbiamo preso un ottimo manager, Ari Hoffman, che ha rilanciato marchi come Lacoste e Gant, abbiamo ridotto il numero dei nostri negozi a 40 (ce n’erano 80, ma negli anni Novanta eravamo arrivati addirittura a 900) per poterci concentrare sull’affermazione del prodotto, per rimarcare una storia vera, italiana e con profondi radici”.

Alessandro Benetton, perché ritenete gli Stati Uniti ancora cruciali, quando molte voci si alzano per decretarne il declino?

“Sono importanti perché, al di là della Cina, continueranno ad essere il centro del mondo: l’essere inconcludenti degli americani è la cosa che fa ancora la differenza. E poi hanno nel Dna la convinzione di riprovare sempre, di non arrendersi e la capacità di correggere il tiro. Mi piace l’idea che non importa se sbagli, importante è provare. Ecco cosa è l’America: un cantiere continuo”.

È per questo che siete usciti dalla Borsa?

“Si, per metterci in gioco, sperimentare, studiare gli errori e correggerli. La Borsa non ci avrebbe permesso di ripensarci a fondo, di risposare visione e organizzazione: quando affronti nuovi progetti non conosci il tempo di reazione e realizzazione, nella realtà non esiste la burocrazia del business plan, e i mercati questo non lo capiscono. E poi questi mercati finanziari hanno mostrato di non rappresentare proprio “la perfezione” …per non usare un eufemismo. Per fare cose solide bisogna recuperare vista lunga, ci vogliono progetti di lungo termine e pazienza”.

Ma allora fu un errore sbarcare in Borsa?

“Assolutamente no, nel 1986 fu utile e il mercato fu un grande acceleratore di crescita e di sviluppo”.

Uscire dai mercati finanziari garantisce tranquillità?

“Se questo significa rimanere fermi allora rispondo: assolutamente no. Vista lunga non vuol dire staticità, anzi per esistere devi continuare a cambiare, ma questo non è completamente codificabile né incasellabile ogni trimestre”.

E come comunicherete la vostra nuova filosofia, tornando a campagne incentrate sui prodotti o continuando sulla strada tracciata da Oliviero Toscani di pubblicità provocatorie tese a rafforzare il brand senza mai far vedere un golf o una maglietta?

“Usiamo tutti e due i registri: da un lato rimetteremo al centro i nostri prodotti, dall’altro andremo avanti con campagne istituzionali pensate da Fabrica, il nostro centro ricerca sulla comunicazione, con cui esporre i nostri valori di riferimento”.

L’ultima campagna “Unhate”, “Non odio”, lanciata lo scorso novembre con i baci tra Obama e Hu Jintao, tra Merkel e Sarkozy, ma soprattutto tra Benedetto XVI e l’imam del Cairo ha scatenato polemiche accesissime ad era stata considerata una provocazione inaccettabile

“L’idea di quei baci voleva essere un invito alla tolleranza, alla pacifica comprensione tra popoli e religioni diverse”.

Al di là delle reazioni ufficiali, come è stata vissuta la campagna, non c’è il rischio di danneggiarsi l’immagine?

“L’84% delle persone che ha interagito con noi, usando twitter, Facebook e blog, ne ha dato un giudizio positivo e grazie a quelle immagini abbiamo raggiunto una platea di mezzo miliardo di persone nel mondo. Abbiamo però visto che esistono divisioni non solo tra generazioni, ma anche tra Paesi: i più favorevoli sono stati i giovani e i Paesi in via di sviluppo“.

Dove puntate adesso Alessandro Benetton?

“Anche nella prossima campagna, che uscirà in autunno, continueremo a parlare di quelli che sono i problemi più urgenti del mondo in cui viviamo”.

E quali sono?

“Non voglio anticipare niente ma basta guardare fuori per sapere che il nostro primo problema oggi sono le giovani generazioni senza lavoro, è il dramma di un patto sociale tra padri e figli che è saltato, in cui i genitori non possono più garantire progresso e miglioramenti, in cui ancora non sappiamo quali competenze saranno necessarie nel nuovo mondo che si è creato”.

Ma l’Italia da dove può ripartire?

“Dovrebbe avere l’ambizione di diventare un Paese “normale”, che non vive di continui estremi, che usa le sue energie per avanzare e non per litigare o piangersi addosso. L’Italia è cultura, senso del gusto, del bello, capacità di fare, turismo, accoglienza. Dovremmo valorizzare questi punti di forza, non continuare a parlare di quello che non facciamo bene e inseguire sogni irrealizzabili: anziché coltivare l’albero dei desideri o delle lamentazioni facciamo crescere solido quello delle possibilità reali”.

FONTE: La Stampa
AUTORE: Mario Calabresi

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